martedì 2 agosto 2016

Come si riconosce un interferente endocrino? L'inserimento nel REACH e il Principio di Sostituzione

Tutte le sostanze chimiche, compresi gli interferenti endocrini, sono soggette a registrazione ai sensi del Regolamento CE 1902/2006, denominato REACH, quando vengono fabbricate o importate nell'Unione Europea per quantità superiore a 1 tonnellata/anno.

Però, le sostanze chimiche identificabili, nello specifico, come interferenti endocrini, sono soggette alle procedure di autorizzazione, secondo quanto stabilito dallo stesso Regolamento REACH, solo se sono classificate come Substances of Very High Concern (SVHC) e incluse, come tali, nell'allegato XIV.

Questa procedura, quindi, avviene analizzando il singolo caso e solo se ci sono evidenti prove scientifiche per cui la sostanza in esame sia una probabile causa di effetti gravi sulla salute umana o per  l'ambiente di un livello di preoccupazione che sia almeno pari a:

  • sostanze cancerogene, mutagene o nocive per la riproduzione (ovvero classificata come 1a o 1b nel Regolamento CE 1272/2008)
  • sostanze persistenti, bioaccumulabili e tossiche.

Il principio di sostituzione impone l'obbligo di sostituzione delle sostanze chimiche tossiche con alternative più sicure, laddove sia possibile.

Alcuni esempi di applicazione del principio di sostituzione per rimpiazzare sostanze di tossicità dimostrata:

  • Gli ftalati (o esteri ftalici) sono usati come ammorbidenti nei prodotti morbidi in PVC, inclusi pavimenti, carta da parati, mobili, abbigliamento, e giocattoli, così come in cosmetici e profumi. 
  • Composti organostannici sono utilizzati come stabilizzatori nelle plastiche, specialmente nel PVC, ed il TBT (tributil stagno) è usato nel trattamento contro le muffe in alcuni rivestimenti per pavimento.
  • Alchilfenoli e loro derivati etossilati (APE) sono principalmente utilizzati come tensioattivi non ionici nei detergenti industriali, ma anche nei trattamenti di rifinitura per prodotti tessili e pelli, nelle pitture ad acqua e come componenti di alcuni prodotti per la cura personale. 
  • Muschi artificiali sono usati in profumi e fragranze, rinfrescanti per l’aria e detersivi in polveri. 

H&M ha ristretto l’uso di APE, composti organostannici, coloranti azoici, bisfenolo A, RFB, diversi metalli pesanti, oltre a idrocarburi aromatici clorurati. L’azienda ha elaborato un chiaro elenco di criteri per tutti i suoi fornitori, utilizzato test per garantirne il rispetto, e fatto affidamento sugli stessi fornitori ed esperti chimici per individuare alternative più sicure. 

Puma, una marca di abbigliamento sportivo, si è impegnata ad eliminare i composti chimici pericolosi, individuati dalla Convenzione OSPAR29, sia dalle scarpe sportive che dai profumi, con un effetto immediato in tutte la gamma dei suoi prodotti. 

Riferimenti:
Progetto LIFE-EDESIA www.iss.it/life
REACH - Esempi pratici di applicazione del principio di sostituzione www.greenpeace.org




mercoledì 27 luglio 2016

Interferenti endocrini: dalla catena alimentare alla gravidanza

L'esposizione a contaminanti ambientali può avere conseguenze negative sulla salute riproduttiva. Queste sostanze, rilasciate nell'ambiente, persistono per lungo tempo, ognuna secondo le sue caratteristiche, o come composto di partenza o come sottoprodotto della sostanza iniziale. In quest'ultimo caso, c'è anche la possibilità che il sottoprodotto sia ancora più nocivo del composto originario.

Un interferente endocrino è definito come un agente esogeno naturale o di sintesi che interferisce con la produzione, il rilascio, il trasporto, la metabolizzazione, l'azione o l'eliminazione di ormoni naturali nell'organismo, responsabili del mantenimento dell'omeostasi (l'attitudine propria degli organismi viventi a conservare le proprie caratteristiche al variare delle condizioni esterne dell'ambiente tramite meccanismi di autoregolazione) e della regolazione di processi riproduttivi e di sviluppo (WHO).
Il bioaccumulo può comportare alterazioni ormonali, alterazione della riproduzione, teratogenesi, immunotossicità e carcinogenesi in maniera diretta oppure attraverso l'influenza sulle reazioni metaboliche del nostro organismo.


Una potenziale fonte di contaminazione deriva dai prodotti agricoli, se metti a contatto con tali contaminanti (utilizzo di pesticidi, inquinamento atmosferico, ecc), per cui può verificarsi un coinvolgimento a livello della catena alimentare, il che suggerisce di curare molto la propria alimentazione, prediligendo prodotti freschi, di stagione, a filiera corta e di origine nota, in modo da essere il più sicuri possibile di ciò che si sta per mangiare.

E' importante lavare bene frutta e verdura prima di consumarle ed utilizzare contenitori per alimenti certificati come tali. Non mettere in freezer o in forno o forno a microonde recipienti che non sono certificati per questo scopo per evitare di sprigionare sostanze nocive. 

E' importante avere un'alimentazione varia ed equilibrata, ricca di tutti i nutrienti, soprattutto se si sta programmando una gravidanza (questo suggerimento vale sia per le mamme che per gli aspirati papà), in modo da avere buoni livelli di tutti i minerali e le vitamine necessarie a favorire il processo riproduttivo e lo sviluppo del bambino.

Laddove possibile è importante evitare l'esposizione a sostanze nocive (evitare fumo, alcol, evitare zone ad alto tasso di inquinamento atmosferico, evitare l'utilizzo di oggetti di dubbia manifattura o non certificati, evitare l'abuso di sostanze chimiche come tinture per capelli o prodotti semipermanenti per il trattamento e l'estetica delle unghie).

mercoledì 16 marzo 2016

Olio di palma: davvero così pericoloso?

Articolo apparso sul numero di febbraio 2016 di MONDO IES di dott.ssa Giovanna Corona

Era il 13 dicembre 2014, quando entrò in vigore il Regolamento Europeo 1169/2011, che riguardava l’etichettatura dei prodotti alimentari e i criteri da adottare per indicarne gli ingredienti. Un Regolamento Europeo, quindi valido in tutti i paesi membri, compresa l’Italia.
Tra le regole introdotte per l’etichettatura, una fece più rumore di tutte: l’obbligo, da parte dei produttori, di indicare la tipologia degli oli presenti, precedentemente indicati con la locuzione generica “oli vegetali”. Dal 13 dicembre in poi, avrebbero dovuto specificare se si trattava di olio di semi, olio di girasole o, ad esempio, olio di palma.
L’olio di palma, già in passato, era stato duramente criticato per le sue proprietà nutrizionali, ma verso la fine degli anni ’80 la polemica era andata scemando. In compenso gli anni ’90 hanno visto una notevole produzione scientifica riguardante questo prodotto e l’entrata in vigore del Regolamento Europeo ha rimesso di nuovo tutto in discussione.

Per quale motivo? Cos’è l’olio di palma e perché fa tanta paura? Il grasso di palma (denominazione più corretta in quanto a temperatura ambiente si presenta allo stato solido e non liquido) è un grasso vegetale saturo non idrogenato, estratto attraverso vari processi di tipo industriale dai frutti delle palme da olio. Alla fine della lavorazione se ne ricava un olio di colore rossastro, dovuto alla massiccia presenza di beta carotene. Trattandosi di un acido grasso saturo a lunga catena (16 atomi di carbonio), alcuni studi hanno portato alla conclusione che la sua assunzione possa aumentare i livelli di colesterolo LDL (il cosiddetto “colesterolo cattivo”) nel sangue ed aumentare, quindi, anche il rischio cardiovascolare. A questi, però, nel tempo, si sono contrapposti altri studi che, invece, hanno “scagionato” l’olio di palma dal rischio di aumento del colesterolo LDL, in quando esso contiene anche il 38% di acido oleico, noto anche con il nome omega – 9, che è, invece un grasso protettivo. Al momento attuale, la discordanza tra le conclusioni dei vari studi non ha ancora portato ad un giudizio definitivo riguardo agli effetti sulla salute dell’olio di palma, in relazione agli altri acidi grassi saturi (olio di cocco, olio di semi, ecc). Ciò che è certo, è che con gli acidi grassi insaturi (soprattutto monoinsaturi, tra i quali ricordiamo l’olio extravergine di oliva), non esistono diatribe ed il loro effetto sulla salute è benefico (grazie alla presenza dei polifenoli che tendono ad abbassare il livello di colesterolo LDL nel sangue).

Il vero problema legato all’olio di palma è l’abuso che se ne fa nella vita quotidiana. Poiché la sua produzione comporta un basso costo, è utilizzato tantissimo sia come ingrediente in prodotti alimentari da forno e confezionati, ma anche come ingrediente cosmetico, all’interno di saponi e creme.
La maggior parte della popolazione consuma più volte al giorno prodotti confezionati e prodotti da forno (fette biscottate, biscotti, merendine, derivati del pane) ed utilizza cosmetici, esponendosi ad un accumulo di olio di palma all’interno del proprio organismo.
Dopo il 13 dicembre 2014, con l’evidenziazione in etichetta della presenza di questo ingrediente, molti hanno orientato le proprie scelte verso prodotti privi di questo olio vegetale, spinti anche dal tormentone mediatico utilizzato dalle aziende produttrici stesse per pubblicizzare i propri prodotti “senza olio di palma”.

Ma se non c’è olio di palma cosa c’è in questi alimenti? In genere olio di girasole, olio di semi, burro, margarina che sono ugualmente acidi grassi saturi (il burro di origine animale, gli altri di origine vegetale), che, in quanto tali, hanno sul sangue gli stessi effetti dell’olio di palma. Anzi, ad un confronto più attento, l’olio di palma che mantiene il suo colore rossiccio (quindi non raffinato eccessivamente) contiene anche caroteni, coenzima Q10 e vitamina E, che, tutto sommato, sono sostanze utili al nostro organismo, particolare non sempre riscontrabile nei suoi sostituti.
Quindi il problema non può essere risolto?

Il problema può essere risolto ricorrendo alle buone prassi di sana alimentazione, ovvero, cercare di incentrare le proprie scelte verso alimenti più naturali e meno industriali, riservando ai prodotti confezionati solo alcune occasioni. Se abbiamo l’abitudine di far colazione con delle fette biscottate, ma per il resto della giornata evitiamo di consumare altri prodotti da forno derivati e ci focalizziamo su un consumo di pane e cereali integrali, scegliamo spuntini “fatti in casa” o a base di frutta e verdura, utilizziamo carne, pesce, formaggi, latticini e uova freschi, la presenza o meno dell’olio di palma a colazione sarà pressoché ininfluente.

Ma il problema dell’olio di palma non è solo di tipo nutrizionale. Poiché la produzione di olio di palma ha un costo relativamente basso, rispetto alle altre produzioni, a livello di mercato la richiesta è molto alta, per cui è necessario aumentare la coltivazione delle palme, di cui la gran parte è effettuata in Malesia. Questa grande richiesta ha favorito il disboscamento della foresta tropicale, poiché è lì che le condizioni climatiche consentono la crescita di tale pianta, ma ha anche favorito processi di rifertilizzazione del suolo che vengono attuati attraverso incendi appiccati alla foresta stessa. Questi fenomeni sono andati via via aumentando, fino a generare anche problemi di tipo sociale (ad es. limitazione del traffico aereo a causa della poca visibilità in atmosfera dovuta al fumo dei roghi).
A fronte delle polemiche sorte negli ultimi anni, che sono sfociate anche in petizioni ufficiali per l’arresto di queste bad practises agricole, il Malaysian Palm Oil Council (appunto, il maggior produttore in Malesia) ha iniziato ad attuare delle politiche di riduzione di impatto ambientale ed ultimamente ha avviato anche le procedure per ottenere delle certificazioni di sostenibilità.


Poiché, però, anche la produzione delle altre tipologie di oli vegetali non di palma genera problemi di sostenibilità (seppur di livello inferiore), il consiglio da poter dare è sempre lo stesso: innanzitutto informarsi sempre al meglio, sia a livello mediatico, attraverso fonti accreditate, sia a livello specifico, prendendo l’abitudine di leggere bene le etichette e comprendere cosa davvero contiene il prodotto che stiamo per consumare; inoltre è importante mantenere uno stile di vita (e, quindi, anche di alimentazione) sano, equilibrato e vario. E’ preferibile che i prodotti industriali integrino la nostra alimentazione e non ne diventino i componenti principali. In questo modo possiamo ridurre al minimo l’assunzione (e quindi anche gli effetti) di sostanze non proprio salutari e limitiamo lo sfruttamento smisurato e fuori controllo dell’ambiente, anche di quello che non ci tocca da vicino perché lontano da noi migliaia di km. A proposito, quando possibile, per dare una mano all’ambiente, scegliamo il km zero.  

mercoledì 6 gennaio 2016

Carbone vegetale: cos'è e a cosa serve?

Da un po' di tempo a questa parte se ne sente parlare tanto e si legge spesso tra gli ingredienti di numerosi prodotti da forno e non solo: il CARBONE VEGETALE. Ma cos'è e a che serve?

Il carbone vegetale si presenta in polvere ed è ottenuto da una combustione senza fiamma ad alte temperature (intorno ai 500 - 600 °C) in atmosfera priva di ossigeno di diversi tipi di legno (betulla, pioppo, salice, ecc) o anche da segatura o gusci di frutta secca. 

Il carbone vegetale, noto anche come carbone attivo, ha la capacità di adsorbire (ovvero legare alla sua superficie) le sostanze tossiche dal nostro organismo, in modo da impedirne l'assorbimento da parte dell'intestino e, quindi, l'immissione in circolo, favorendone, invece, l'eliminazione attraverso le feci. A livello terapeutico viene utilizzato anche in casi di avvelenamenti o intossicazioni o in preparazione ad alcuni esami clinici (come, ad esempio, l'ecografia addominale) che prevedono una pulizia gastrointestinale.

Data la sua funzione adsorbente viene, quindi, utilizzato, anche per limitare fenomeni di gonfiore addominale, meteorismo e flatulenza, anche se bisogna, come con ogni sostanza estranea al nostro organismo, utilizzarla con moderazione. 

Innanzitutto, bisogna fare attenzione se si assumono farmaci. La capacità dei carboni attivi di sequestrare sostanze dall'intestino vale anche per i farmaci, che, quindi, se assunti insieme al carbone o a poco tempo di distanza )sia prima che dopo) possono avere una minore efficacia.

Un altro problema che si può riscontrare è che, utilizzato in dosi eccessive, per tempi prolungati o in condizioni in cui non ce ne sia bisogno, possa sottrarre anche sostanze "buone", come i minerali essenziali, calcio, potassio, rame, zinco o altri nutrienti di cui necessitiamo, portandoci ad una situazione di carenza.

Come additivo alimentare, secondo quanto stabilito dall'EFSA (European Food Safety Authority), la maggiore autorità a livello europeo per la sicurezza alimentare, l'utilizzo del carbone vegetale all'interno degli alimenti è autorizzato sotto forma di colorante, la cui sigla è E153 (reg. CE n. 1333/2008, reg. UE n. 1129/2011).


Sempre secondo le autorità europee (anche specificato dal Ministero della Salute, con nota del 22 dicembre 2015), il carbone vegetale non può essere considerato un ingrediente e non può comparire in etichetta come ingrediente. Gli alimenti con aggiunta di carbone vegetale non possono essere considerati "terapeutici" e non possono riportare scritte che ne indichino un utilizzo terapeutico. Inoltre, l’impiego del carbone vegetale non è ancora previsto per gli alimenti venduti con la denominazione “pane” bensì per i “sostituti del pane”, quali ad esempio grissini, cracker, gallette, pizze e schiacciate, taralli, fette biscottate, etc.